Tante, troppe volte nelle soffitte, nelle cantine e nelle sacrestie delle parrocchie gli
harmonium sono stati lasciati in pasto a tarli e topi. L’harmonium è sempre stato considerato il fratellino povero dell’
organo a canne. Questo giudizio inclemente deriva paradossalmente da un atto splendido del magistero della Chiesa: designare l’harmonium come valido sostituto per quei luoghi e quelle circostanze dove la mole e i costi dell’organo a canne fossero proibitivi. Il sostituire l’organo, però, non è segno di una scelta di qualità inferiore, anzi. Indubbiamente, a paragone di raffinatissimi Alexandre, corposi Mustel o possenti Lindholm, i nostri strumenti italiani chinano il capo ossequiosi: eppure anche gli harmonium della nostra terra sono stati una ricchezza preziosa per la musica, lo studio e la liturgia, …e possono esserlo ancora! La ditta Galvan, ad esempio, realizzava harmonium con una tale cura e una tale passione che i suoi strumenti venivano definiti “gli Stradivari degli harmonium” italiani. Tra le millenarie pietre di un’antichissima pieve romanica della Montagnola Senese, Alessio Cervelli, organista e docente di musicologia liturgica, fa risuonare un piccolo harmonium Galvan dopo decenni di silenzio. Oltre al linguaggio romantico ad esso congeniale (Mason, Boely), lo strumento si avventura verso il repertorio barocco (Wesley, Zipoli, Pachelbel) e sfodera tutte le sue energie, fino a spingersi – con la Giga in Sol minore, per esempio – al limite estremo delle sue possibilità esecutive, in uno sforzo ardente che racconta ancora alle nostre parrocchie il motivo per il quale esso è stato costruito e collocato in quella chiesa: servire Dio con la più autentica dignità dell’arte, un’arte vera, che quanto a genuinità e calore supera di gran lunga quella di qualsiasi tastiera elettronica.